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ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI PIAZZA FONTANA

"A quest'ora grave e sacra meglio sarebbe il silenzio..."

In questa sezione si propongono due omelie dell'Arcivescovo Colombo tenute per i Funerali di Stato delle Vittime della Strage di Piazza Fontana nel centro di Milano presso la Banca Nazionale dell'Agricoltura e a pochi metri dall'Arcivescovado. L'occasione è quella del Cinquantesimo anniversario da quel grave attentato terroristico avvenuto il 12 dicembre 1969, che causò 17 morti e 88 feriti. 

Con Piazza Fontana «Milano fu macchiata (come e più di altre Città d’Italia) da enormi chiazze di sangue di gente sì in divisa, ma anche di gente semplice e comune, soprattutto giovani di varia matrice culturale e di persone inermi». (Mons. Francantonio Bernasconi)

«Noi ti affidiamo, o Padre,                      le sorti del nostro Paese

fa che nella coscienza dei suoi cittadini

e nelle leggi, sia sempre onorata

la dignità dell’uomo, tua creatura            e tua immagine vivente».

                                             G. Colombo

Per le vittime di Piazza Fontana

PER LE VITTIME DI PIAZZA FONTANA

Omelia ai Funerali di Stato, 15 dicembre 1969

 

A quest’ora grave e sacra meglio s’addirebbe il silenzio. Ma come pastore d’anìme devo interpretare e orientare, alla luce della verità, i sentimenti e le aspirazioni che oggi colmano l’animo di un popolo intero, senza distinzione di classi. Sono sentimenti di orrore, perchè ancora una volta la mano proditoria e furtiva di Caino ha sorpreso fratelli inermi e ignari e ne ha fatto strage; ancora una volta il sangue innocente di Abele, sparso a macchie enormi, offende questa mia diletta città industre e onesta, le tradizioni civili e cristiane della nazione, la stessa umanità.

Sono anche sentimenti di fiero sdegno, che invocano giustizia chiara e ferma, perchè senza di essa non si può dissolvere un pernicioso senso di corrosiva sfiducia verso questa società, nè si può ridare al popolo la necessaria certezza che il diritto è rispettato, la libertà è difesa, la convivenza pacifica è protetta.

Sono soprattutto sentimenti di compianto e di preghiera per le vittime, di condolente fraternità verso i familiari costernati, a cui a gara vorremmo asciugare le lacrime, confortare il cuore, recare soccorso. Tutti sentiamo il dovere e il bisogno di riparare il grande male che loro è stato fatto. Ma senza la fede in Cristo, liberatore della morte, questo male non ha riparazione; senza la speranza cristiana di ritrovarci insieme nella immortalità beata, questa ferita del cuore non può rimarginare.

La vita d’ogni uomo e la storia dell’umanità sulla terra, chiusa in se stessa, non trova tutta la spiegazione di cui ha bisogno, ma presenta grovigli assurdi e scava nel nostro profondo essere un vuoto incolmabile. Senza le consolanti certezze rivelate dalla parola di Dio, l’uomo è a se stesso mistero e disperazione. Noi crediamo fermamente che Cristo, il nuovo divino Abele, di cui l’antico era figura profetica, Cristo la volontaria vittima della violenza, raccoglie il sangue e il pianto degli innocenti e unendoli al suo sangue e al suo pianto, in un sacrificio unico e perfetto, li rende meritori di un premio eterno nel Regno del Padre suo e Padre nostro.

Con la sua risurrezione Egli ha proclamato la nostra, e ci ha dato la prova che nella morte la vita non è tolta, ma soltanto mutata e, per chi crede, sale a una forma piena e intangibile, in una luce senza tramonto, in una gioia senza turbamento. Là, questi nostri fratelli, la cui salma martoriata è custodita in queste bare, ci hanno preceduto e ci aspettano. Dove i sentimenti rivelatori dell’anima autentica del popolo lombardo sono risonati con umile e profonda sapienza, è sulle labbra dei feriti. Straziati e amputati trovano ancora la forza di esprimere la speranza di una società migliore.

Merita che io renda pubblica la testimonianza di due, tra i più gravi, udita anche dal signor Ministro della Sanità, che mi era vicino. Uno mi ha detto: “Fu una cosa orrenda! ma io preferisco averla subìta, piuttosto che averla fatta ad altri”. Mi ha detto un altro: “Così: non va. Fate subito qualche cosa per cambiare questo mondo”. È vero: così: non va, così: non può andare.

Tutti e ciascuno, secondo i propri doni e il proprio posto, possiamo e dobbiamo fare qualche cosa per cambiare questo mondo. Ma non lo cambieremo in meglio, se non si ritornerà ai principi e ai metodi del Vangelo, fuori dei quali non è possibile un vero progresso civile, e sui quali si fonda la genuina tradizione del nostro popolo laborioso e retto.

Il sacrificio cruento dei nostri fratelli con il dolore dei familiari oggi già ci benefica, unendoci tutti in un proposito solo di rinnovamento sincero. E non sia solo per questa ora. Esso guidi i supremi responsabili a trascendere ogni rivalità di parte, per darci presto quella giustizia e quella sicurezza, nella libertà e nell’ordine, che tutto il paese oramai aspetta con impazienza. Ispiri l’educazione delle nuove generazioni, facendo tacere lo pseudo magistero di chi esalta ancora la violenza sopra la pace, la rappresaglia sopra la legge. Tolga ogni possibilità di nocumento al terrorismo illiberale e sanguinario. Torni, così, l’albero natalizio a risplendere di speranze non illusorie.

E l’umile culla di Cristo ci riporti sulle vie della pace e della fraternità. Addio, vittime innocenti! La Madonnina, che dall’alto, inorridita, ha visto il vostro martirio, vi introduca maternamente nella festa eterna di Dio. E noi, che cosa abbiamo da promettervi oltre il ricordo e la preghiera? Questo: faremo ogni sforzo perchè il vostro sangue e il pianto dei vostri cari non siano vani.

 

 

PER LA 15a VITTIMA DELL’ECCIDIO DI PIAZZA FONTANA

Abbiategrasso, 30 dicembre 1969

 

Il messaggio agli uomini dell’umile Patriarca della Bassa Ancora lacrime sui nostri occhi, ancora fremiti nel nostro cuore, ancora preghiere sulle nostre labbra cristiane ci chiede la strage di Milano per la sua quindicesima innocente vittima. E sarà l’ultima? Lo speriamo ardentemente, ma non senza trepide ansie. Questa volta però abbiamo tutti la profonda impressione di essere venuti qui non solo per un atto di estrema pietà, quale è quello di consegnare alla terra una salma straziata da ferite atroci, ma piuttosto per celebrare la festa di un giusto e per accompagnarlo al premio che non delude, ma «i desideri avanza».

Angelo Scaglia è stato chiamato «il patriarca della Bassa»: e lo era veramente per l’aspetto virile e aperto, per l’onesta e semplice vita, per la laboriosità intelligente e indefessa, per la sua famiglia numerosa, per la fede inconcussa. Non è senza significato se proprio nella dolce sera di Natale il suo cuore, umile e mite come quello degli antichi pastori di Betlemme, cessò di battere sulla terra, Q56 - Francantonio Bernasconi (a cura di) - Il Vescovo non può tacere 4 e i suoi occhi si chiusero in pace per vedere Colui che per nostro amore è nato in una stalla.

Noi davanti al suo feretro vorremmo porre una domanda che ci angustia. Se anch’egli doveva morire, perché non subito come gli altri? perché non risparmiargli questi tredici giorni e tredici notti di inenarrabili sofferenze? È sempre temeraria presunzione interrogare la volontà di Dio sui suoi disegni. Meglio accettarla, credendo al suo arcano amore, piuttosto che indagarla. Tuttavia una risposta ci viene facile. Perché egli avesse il tempo di dirci quello che doveva dirci.

Udiamo, dunque, le sue ultime parole perché emanano luce e hanno virtù di fare più buoni quelli che le custodiscono santamente nel loro cuore. Ai primi soccorritori questa implorazione: «Aiutatemi: ho undici figli». È la sua famiglia: da quell’assurdo finimondo affioravano a lui undici amati volti, e quasi in ombra taciuta quello della fida compagna di ogni fatica, di ogni gioia, di ogni pena. All’ospedale mi disse non senza dignità consapevole: «Sto alla Bellotta di Abbiategrasso». È il suo lavoro sulla sua buona terra. Additandomi il crocifisso sulla parete: «È lui che mi dà la forza». È la sua religione, autentica e rifulgente nella prova. Mi disse ancora: «Fu una cosa orrenda: ma preferisco averla subita, piuttosto che averla fatta agli altri». E più tardi a chi gli recava la notizia che il presunto colpevole era nelle mani della giustizia: «Povero ragazzo, deve essere più malato di testa che cattivo. Speriamo che non gli facciano del male. Io, da parte mia, gli ho già perdonato». È il suo messaggio agli uomini. Se gli uomini lo raccogliessero, sarebbe la fine di ogni guerra.

Sarebbe infranta la catena della violenza. La via della pace è solo questa, proclamata e percorsa da Angelo Scaglia: la via del perdono e della riconciliazione. La sua bocca di umile patriarca e profeta della nostra Bassa adesso può chiudersi in silenzio per sempre. Ma il suo messaggio risonerà e non si spegnerà nelle nostre anime. Fin tanto che nell’umile popolo si troveranno simili tempre di leali lavoratori, il nostro paese potrà ancora sperare in giorni migliori.

Dio ci aiuti tutti a non sciupare queste nostre speranze in indugi pavidi, interessati, discordi. Fin tanto che la religione produrrà testimoni di Cristo, capaci di imitarlo fino all’amore supremo di morire perdonando ai propri crocifissori e pregando per loro, Dio sarà ancora con noi e potrà contare ancora, tra noi, uomini di buona volontà.

A tutta la famiglia Scaglia, alla addolorata consorte e agli afflitti figli e nipoti, desideriamo dare conforto: ne condividiamo il dolore, preghiamo per loro e con loro, ma anche offriamo la nostra riconoscenza per tutto quello che ha significato per noi la vita e la morte del loro e nostro carissimo Angelo.

E ora deporremo nella terra il suo corpo come egli, a ogni autunno, deponeva nei solchi il seme.

La certa e beata speranza della nostra fede ci assicura che lo rivedremo risorto, in fulgida spiga, nella primavera eterna.

 

 

 

NEL DISCORSO ALLA CITTA', DELL'ARCIVESCOVO DI MILANO DELPINI, LE PAROLE DEL SUO PREDECESSORE COLOMBO

6 dicembre 2019

 

"... Benvenuto futuro! Potrebbe sembrare stonato pronunciare un simile augurio a pochi giorni dalla data che ha segnato in modo indelebile la vita dei milanesi. Il prossimo 12 dicembre ricorre il 50° della strage di Piazza Fontana. Quella strage provocò 17 morti e almeno 88 feriti e seminò sconforto e paura non solo tra i milanesi, ma in tutto il Paese, per il clima che si creò a partire da quell'evento.

Eppure è proprio la memoria di quell'evento a incoraggiarmi a proporre questo augurio, come sensato e profetico. 

Se siamo qui questa sera, se possiamo commemorare con la giusta commozione e il cordoglio la strage del 12 dicembre 1969 è perché ci furono persone che, anche in un momento così difficile, non si arresero ai diktat della paura e della lotta, alla logica del terrorismo. Impegnarono le loro energie migliori per costruire un futuro promettente per loro e per tutti.

Sottolinea molto bene questo concetto il cardinale Giovanni Colombo, nell'omelia dei funerali per le vittime della strage, tenutisi il 15 dicembre in Duomo. Quella celebrazione seppe interpretare quel momento tragico dando voce alla speranza di pace e di vita, dopo lo shock e il trauma della violenza e della morte. 

In Piazza Duomo, e non solo nella Cattedrale, si confermava la forza di Milano, la sua volontà di futuro. Come seppe ben affermare il Cardinale nell'omelia: "Uno dei feriti mi ha detto: "Così non va. Fate subito qualche cosa per cambiare questo mondo".  E' vero: così non va, non può andare. Tutti e ciascuno, secondo i propri doni e il proprio posto, possiamo e dobbiamo fare qualche cosa per cambiare questo mondo".

E il nostro Paese ha vinto nei decenni la sfida con impegno coraggioso. E' questo il coraggio che respiro ogni volta che attraverso la piazza davanti alla curia, richiamandomi ogni volta quanto sia costato e quanto costi vivere aperti al futuro...".

Per la 15a vittima
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COLOMBO CITATO DA DELPINI
Ancora 1
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