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AI PRESBITERI E AL SEMINARIO AMBROSIANI come un ricordo

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In questa sezione trovi due meditazioni tenute dal Cardinale Giovanni Colombo nel Santuario Diocesano della Madonna Addolorata di Rho e una omelia al Seminario Arcivescovile di Venegono Inf.

I testi sono stati uniti in un piccolo opuscolo della NED editore del 1983 come omaggio dello stesso Cardinale Colombo.

"... i silenzi del mio cuore, quando adoro la presenza reale di Gesù eucaristicco o quando celebro la santa Messa, sono pieni di voi e delle popolazioni di cui siete o sarete il centro e la guida".

Card. Giovanni Colombo

DICONO E SCRIVONO DI LUI

L'Arcivescovo Card. Colombo si intrattiene

con un gruppo di sacerdoti in episcopio.

Carissimi presbiteri di oggi e di domani,

i silenzi del mio cuore, quando adoro la presenza reale di Gesu eucaristico o quando celebro la santa Messa, sono pieni di voi e delle popolazioni di cui siete o sarete il Centro e la guida.
Dicono che un vento di indocile contestazione abbia sconvolto le onde del mare durante i 16 anni del mio servizio episcopale. Sarà, ma quasi non me ne sono accorto, tanto buone promesse erano pur coinvolte in quella trista inquietudine, e poi, perché ho sentito la totalità del clero e il seminario sempre con me a sostenermi al timone.
Cosi il transatlantico della Chiesa ambrosiana poté avere i fianchi flagellati e lavati dai marosi, ma non mutò la sua rotta verso la Patria promessa.
I timonieri visibili passano e mutano nome. Il grande Timoniere invisibile resta e non passa.
Presbiteri, seminario e comunità cristiane, siate una sola cosa con l’odierno timoniere: nella sua Voce udite la parola di Cristo, nel suo gesto vedete
la mano di Cristo. E dove è Cristo, nessun timore: Egli è gioia e pace.
Con Lui e con voi voglio essere anch’io: "per morire insieme e insieme vivere... ho molto da vantarmi di voi" (2 Cor. 7, 3-4).

 

Vostro aff.mo
CARD. GIOVANNI COLOMBO

 

Solennitià del Corpo e del Sangue del Signore
Milano, 5 giugno 1983

Ancora 1

LA CROCE: COMPIMENTO DELL'ADORAZIONE DI GESU'

Meditazione tenuta al clero nel Santuario della Madonna Addolorata di Rho - 22 febbraio 1983

Tre pensieri fondamentali
 

Desidero premettere a questo tema tre pensieri fondamentali.
 

Il primo pensiero: <<Gesù in Croce é l'ubbidiente perfetio al disegno di Dio>>.
Quando Cristo muore sulla croce, si compie il Sì del suo pieno consenso alla volontà del Padre, della sua obbedienza al disegno di Dio.
In quel momento, viene consumata l’intenzione iniziale che al suo ingresso nel mondo gli aveva fatto promettere: << Io vengo per fare la tua volontà >> (cfr. Ebr. 10, 7).
Alla sua scomparsa dal mondo, quando, voltandosi indietro a considerate i suoi anni mortali e riscontrando d’aver mantenuto il suo proposito, Gesù poté esclamare: << Io ti ho glorificato sopra la terra >> (Gv. 17, 4).
Perciò il Padre, nell’ora del Battesimo e della Trasfigurazione, - immersione nell’acqua transitoria del fiume e immersione nella luce imperitura della gloria - può presentare Gesù di Nazaret a tutte le generazioni con solenni parole che lo indicano uomo perfetto, meritevole d’ogni approvazione divina; << Questi e il mio Figlio prediletto in cui ho riposto la mia compiacenza. Ascoltatelo! >> (cfr. Mt. 3, 17; 17, 5).

 

Il secondo pensiero: << Solo l'amore redime >>.
Se è vero che, da un lato, Gesù muore sul Calvario come vittima di un'oppressione che lo schiaccia, che prevale su di Lui e non gli permette di sottrarsi, da un altro lato, e profondamente più vero che Gesù muore per sua libera volontà. Egli si sacrifica, quindi, per amore, e lo afferma: << Nessuno mi strappa la mia vita, sono io che la depongo da me stesso >> (Gv. 10, 17-18).
Per questa plenaria dimensione di carità, il sacrificio della croce ha un valore di salvezza. Non la costrizione della violenza, ma solo la libertà dell’amore redime. E se questa sulla terra si attua attraverso la sofferenza, ciò vuol dire che la sofferenza è inscindibile segno ed epifania dell’amore.

 

Ed ecco il terzo pensiero: << Morendo in croce, Gesù si offre per la gloria di Dio e nello stesso tempo per il riscatto dei fratelli >>.
Con la morte in croce Gesù di Nazaret si consegna, simultaneamente e volontariamente, alla gloria di Dio e al riscatto dei fratelli, verso i quali, Dio e i fratelli, esprime un amore immisurabile, come è quello di Colui che non trattiene nulla per sé, ma rende usufruibile agli altri, a tutti gli altri, l’intera sua esistenza.
A tutti gli altri: non solo ai discendenti di Abramo e di Davide, suoi capostipiti, ma anche alle genti di ogni stirpe, di ogni lingua, di ogni religione e di ogni cultura. Anche ai più remoti nello spazio geografico e nella successione dei secoli.
Anche ai più inconsapevoli: o perché, immersi fino al collo in affari terrestri, non hanno trovato tempo d’interessarsi della loro salvezza eterna o perché si sono convinti di poterla rifiutare, affermandosi atei.
Ma l’amore misericordioso del Salvatore "ha si gran braccia" - come dice Dante (Purg. III, 122) _ che tutti stringe a sé "fin che la speranza ha fior del verde" (Purg. III, 135).

 

Una duplice ritlessione
 

Ora vorremmo soffermarci su una duplice riflessione. Da tutta l’eternita esisteva un Dio infinitamente adorabile, ma non esisteva un uomo che lo potesse adorare quanto meritasse. Nella pienezza dei tempi, Dio ci inviò il suo Figlio unigenito, che nel grembo di una donna, Vergine e Madre, si è fatto uomo. Allora, finalmente, ci fu nel mondo l’uomo capace di adorare Dio quanto lo richiedesse la sua sconfinata dignità.
Parimenti, da tutta l’eternità esisteva un Dio infinitamente amabile, ma non esisteva l’Uomo che lo sapesse amare quanto meritasse. Nella pienezza dei tempi, apparve il Figlio di Maria, la Vergine Madre, che generandolo per virtù di Spirito Santo, lo fece nostro fratello. Allora, finalmente ci fu in terra l’Uomo che lo sapesse amare quanto lo esigeva la sua illimitata amabilità.
Con Gesù di Nazaret che muore in croce, l’umanità ebbe un cuore adorante degno di Dio: il cuore dell’ubbidiente perfetto al suo eterno disegno, dell’amante pari alla divina immensa amabilità, dell’unico mediatore che nella sua persona esprime l’universale rappresentanza del genere umano.

 

Emergono tre conseguenze:

  • anzitutto, che ogni nostra preghiera ha valore e senso a partire dalla croce; e che ogni grazia proviene a noi dall’intercessione della croce;

  • poi, che la preghiera di adorazione e di amore fusa dalla croce, invariabile e infinita com’è, non può mutare, né sopporta aggiunte o diversità. E’ invece assumibile e condivisibile da ciascun credente;

  • infine, che come il sacrificio della Croce consiste in quell’unica oblazione con cui Gesù << ha reso perfetti per sernpre quelli che vengono santificati >> (Ebr. 10, 14), così, per esatta coincidenza, la preghiera di Cristo, cioè la sua adorazione nella volontarietà dell’amore permane di una inesauribile effcacia.

 

Possibilità e senso dell'Eucaristia
 

A questo punto appare la possibilità e il senso dell’Eucaristia. L’Eucaristia non ripete il sacrificio della Croce, ma ne è il sacramento: essa, sotto i veli del pane e del vino ce lo ripresenta nella sua precisa identità, per la quale il tempo che trascorre e lo spazio che distanzia sono assolutamente indifferenti. Con san Pietro scarcerato e quelli di Gerusalemme, o con san Paolo in attesa del martirio e quelli di Corinto, o con sant’Ambrogio e sant’Agostino nella veglia pasquale e quelli di
Milano verso il morente secolo IV, o all’ombra del cupolone michelangiolesco per le mani di papa Giovanni Paolo II, scampato miracolosamente da un colpo micidiale alla fine del secolo XX, l’Eucaristia ripone nell’intimo dell’umanità l’orazione e l’intercessione del Sacerdote sommo e perfetto, Gesù di Nazaret. La Chiesa, che è questa umanità, ricevendo il Corpo e il Sangue di Cristo nel segno conviviale della propria fede, ne assume anche la carità, la quale si manifesta nell’amore vicendevole e nel reciproco servizio.
Tutta la Chiesa, anche se in diverso modo e grado, è chiamata a celebrate l’Eucaristia e ad assumerne la verità. Appunto per la sua vocazione all’Eucaristia, essa è un popolo contrassegnato da un sacerdozio regale e santo che la separa dal peccato e la consacra a Cristo nel Sangue.

 

Sacerdoti per l’Eucaristia e per la Chiesa
 

Un sacerdozio di ministero ordinato assicura nella comunità ecclesiale la ripresentazione del sacrificio della croce, mediante l’Eucaristia.
L’Eucaristia, prima di tutto, è un servizio a Gesù Cristo, e alla sua signoria, cosi che nella Chiesa la sua preghiera sulla croce non cessi mai di essere usufruibile. L,Eucaristia, inoltre, è un’invenzione di Cristo, suo dono e sua grazia. Non è la Chiesa che deputa il sacerdote a celebrare l’Eucaristia, ma è Gesù che lo invita. Quando lo invita? Nell’ultima cena con le parole: << Fate questo in memoria di me >> (LC. 22, 19).
Il sacerdote appare cosi l’uomo della croce e dell’Eucaristia: la Croce, vista in tutta la pienezza di evento salvifico; l'Eucaristia, come segno che, rendendo disponibile ai singoli il sacrificio e comunicabile a loro la salvezza, edifica la Chiesa, umanità redenta.
Ora, possono essere illustrati i modi di essere sacerdoti per l’Eucaristia e per la Chiesa. Avanti ogni cosa è necessario affermare che solo il sacerdote ordinato (vescovo o presbitero) ha potere di presiedere la celebrazione eucaristica.

 

Con la sua presidenza:


- annuncia la signoria e l’unicità di Cristo mediatore universale;


- tiene viva la natura propria della Messa come cena di Cristo, il crocifisso-risorto;


- fa onorare la realtà della presenza di Cristo nell’Eucaristia: non solo durante, ma anche prima e dopo il rito del sacrificio della croce;


- ne rileva il contenuto di carità, educa ad assimilarlo e a manifestarlo con le opere, memore sempre che la Chiesa viene edificata da Gesù che si è lasciato crocifiggere per amore (non si dimentichi mai che solo l’amore e cio che è fatto per amore redimono);


- introduce con lunga e affabile pazienza alla comprensione dell’Eucaristia col metodo proprio della mistagogia (come sant'Ambrogio nella settimana di Pasqua);
- stima l'azione liturgica di cui è fedele e intelligente celebrante, lontano sia dagli arbitri sia dalla passività del rubricismo;


- fa apparire l’Eucavistia come l'orazione e la oblazione di Cristo sulla Croce, che si diffonde in tutta la Chiesa sparsa nel mondo.


 

Il sacerdote deve rivivere tutto il sacrificio della croce
 

Il sacerdote - vescovo o presbitero - non è un semplice e fedele esecutore dell’Eucaristia, sia pure ineccepibile. Egli è chiamato a rivivere in se stesso - con la dedizione dello spirito e con la consacrazione della vita - il mistero redentivo vissuto da Gesù sulla croce in modo cruento.
Da ciò con rigoroso valore logico derivano due conseguenze:


1) Il sacerdote non può ritenere la propria dedizione a Dio e ai fratelli come un servizio a intermittenza ridiscutibile: il "sì" di Gesù al Padre deve riflettersi nel sì dell’esistenza sacerdotale. Questo "sì", o è invalido per immaturità psicologica, o resta irrevocabile per sernpre.
 

2) Il sacerdote non può considerare la sua adesione al sacerdozio come un fatto esteriore e oggettivo, bensi come un’adesione del cuore palpitante per la gloria di Dio e per la salvezza dei fratelli. Ogni funzionalismo deve essere superato ed escluso. (Ricordate il raffronto di PAPINI in una delle Lettere a Celestino V, tra gli artisti di teatro e certi celebranti del mistero eucaristico: i primi recitano drammi falsi con parole vibranti di verità; i secondi presentano un dramma vero con parole aride di sentimento).


3) Il sacerdote non deve dimenticare che la sua esistenza intera deve essere interpretata e vissuta alla luce della croce: a cominciare dalla comunione con il vescovo e i confratelli fino al servizio, giorno dopo giorno, alla collettività o ai singoli confratelli, in ogni loro bisogno.
A che vale l’aver presieduto l’Eucaristia, se questa presidenza non si rivela con l’esemplarità nella carità?

 

4) Il sacerdote non può concepire la sua adesione al sacerdozio come quella di un sindaco o di un professore: il sindaco fa il sindaco quando è in funzione, il professore fa scuola fin che va in pensione. Il sacerdote, invece, è sempre in una funzione che lo identifica con Cristo: il fedele lo vede così quando lo incontra e salutandolo gli dice: << Sia lodato Gesù Cristo >>. Come Cristo, egli deve vivere sempre teso alla gloria di Dio e alla salvezza dei fratelli mediante le opere di misericordia spiriruali e corporali.


5) Anche nei casi dove gli capitasse di dire la santa Messa solo (o per mancanza di fedeli o per un’infermità che lo costringe a celebrate in casa) il sacerdote non può pensarsi solo. Il Signore Gesù, di cui è discepolo e imitatore, non è mai presente solo alla destra del Padre, ma sempre in solidarietà con tutta la Chiesa.
 

 

La pietà eucaristica
 

Per concludere dirò che questo spirito e che questa pratica sacerdotali per conservarsi sempre efficaci e non esaurirsi, domandano che venga coltivata la pietà eucaristica anche nella forma dell'adorazione silenziosa secondo le risonanze tradizionali e le esigenze di una amicizia cordiale tra Gesù realmente presente nell’Eucaristia e il suo sacerdote.

 

 

***

Ancora 2

LA LITURGIA DELLE ORE

Meditazione tenuta al clero nel Santuario della Madonna di Rho il 22 febbraio 1983


Finora abbiamo parlato dell’Eucaristia. Essa non è l’unica presenza dell’adorazione e dell’intercessione di Cristo. Ne è, però, la sorgente e il termine, anzi ne costituisce l’espressione più solenne e più completa. Proprio per questo penetra e valorizza tutti i momenti e gli spazi dell’orazione della Chiesa.
 

 

La Chiesa, sposa di Cristo, prega sempre con Lui
 

La Chiesa, sposa di Cristo, non cessa mai di pregare con Cristo, di essere in comunione con lui nell’orazione della Croce, continuata al cospetto del Padre nella non mai interrotta presenza interceditrice.
Il tempo appare cosi intessuto dallo spirito di preghiera della Chiesa, cioe della comunita dei figli 
di Dio, i quali sull’esempio e con gli accenti del Figlio consustanziale rivolgono al Padre la loro partecipazione al mistero della croce.
"In questo sta la dignità della preghiera cristiana, che essa partecipa dell’amore del Figlio unigenito per il Padre e di quella orazione che Egli durante la sua vita terrena ha espresso con le sue parole, e che ora, a nome e per la salvezza di tutto il genere umano, continua in tutta la Chiesa e in tutti i suoi membri" (Principi e norme per la liturgia delle ore, n. 7).
A queste parole stupendo commento fa sant’Agostino (Salmo 85, 1; CCL 39, 1176): << Nessun dono maggiore Dio potrebbe fare agli uomini che costituire loro Capo il suo Verbo per mezzo del quale ha creato tutte le cose, e a lui unirli come membra, cosi che Egli fosse Figlio di Dio e Figlio dell’uomo: un solo Dio con il Padre, un solo Uomo con gli uomini. Così, quando pregando parliarno con Dio, non per questo separiamo il Figlio dal Padre, e quando il corpo del Figlio prega, non separa da sé il proprio Capo, ma è Lui stesso unico Salvatore del suo corpo, il Signore nostro Gesù Cristo Figlio di Dio, che prega per noi, che prega con noi, che è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro Capo, è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo dunque in lui le nostre voci e le sue voci in noi >>.

 

 

Carattere eucaristico della liturgia delle ore
 

Importa rilevare il carattere eucaristico della liturgia delle ore. Se l’orazione della Chiesa, per sua natura fondata sulla nuova ed eterna alleanza, consiste nel condividere la preghiera e l’adorazione sacrificale di Gesù, possiamo dire che ogni orazione - e quella delle ore in modo particolare - è una forma di Eucaristia; ripresenta infatti il contenuto e il senso dell’Eucaristia medesima.
Resta quindi superata l’immagine di padre Odo Casel o.s.b., del monastero di Maria Laach, che paragonava la liturgia delle ore a un anello su cui la gemma della Messa diffondeva splendore. Prevale oggi un’altra immagine per la quale la Messa non è incastonata, ma fa tutt’uno con l’anello, e fusa in esso, accrescendone la lucentezza.
Mette conto d’insistere sui rapporti tra liturgia delle ore ed Eucaristia. La lirurgia delle ore estende ai diversi momenti della giornata le prerogative del mistero eucaristico: ossia la lode, il rendimento di grazie, la memoria delle azioni di salvezza, le suppliche, la pregustazione della gloria Celeste. 

 

E’ facile comprendere come la lode a Dio e il rendimento di grazie possano venire espressi dalla liturgia delle ore.
Altrettanto facile è comprendere come anche 
tutta l’opera della glorificazione di Dio e del riscatto umano mediante la celebrazione della liturgia delle ore viene compiuta da Cristo per mezzo della sua Chiesa nello Spirito Santo; basti pensare che Egli è presente e presiede, salmeggia con tutti i rinati nell’onda battesimale, proclama la Parola di Dio, l’attua nella sua persona che muore in Croce e condivide, infine, il suo stato di adoratore perfetto, di mediatore universale, di vittima glorificata e glorificante nella basilica del cielo.
 

 

Rapporti nell'ambito dell’analogia
 

D’altra parte i rapporti tra liturgia delle ore e liturgia eucaristica vanno esattamente intesi, ossia nel senso di un’analogia e non di una identificazione come parrebbe urgere l'mmagine in cui la gemma, ossia - fuori dell’immagine - la celebrazione eucaristica, è fusa nell’anello e con l’anello forma una sola cosa.
Se pensassimo di accogliere questa immagine col suo valore di indentificazione, si precluderebbe alla Chiesa la libertà che le compete di scegliere tra i suoi membri chi ha il compito di presiedere alla liturgia delle ore. Infatti nel caso che questa inglobasse il sacrificio eucaristico, essa dovrebbe essere presieduta da un ministro ordinato, (vescovo o presbitero) che solo ha il potere di identiiicarsi a Cristo e ripetere in sua memoria e in sua per
sona le parole consacratorie: << Questo è il mio Corpo... Questo è il calice del mio Sangue... >>.
 

***
 

A compimento delle osservazioni fatte, mi viene in mente la stupenda esortazione che san Benedetto ha lasciato nella sua Regola (capitolo 43) a proposito della liturgia delle ore: "Nihil operi Dei praeponatur": non lo studio personale, non le attività apostoliche, non altre occupazioni, perché ritardando il divino ufficio nei momenti di stanchezza finiremmo col sentirlo << onus Dei >> assai più che << opus Dei >>. Ovviamente il Santo abate di Montecassino non poteva ancora immaginarsi un’ufficiatura congiunta o fusa con il mistero eucaristico. Noi preferiremmo sostituire il termine << opus Dei » con quello più personalizzato di "opus Christi". L’opera di Gesù, Verbo incarnato, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, abbraccia in una sintesi inscindibile l’ufficio divino e il mistero eucaristico: è sempre Lui
il Vero e invisibile presidente d’entrambi.

 

 

Obbligatorietià della liturgia delle ore


L'obbligatorietà della liturgia delle ore non va più intesa partendo da un precetto giuridico, ma da un principio vitale. Per la Chiesa, come per il suo Capo e Sposo Gesù, la preghiera è vita, respiro dei suoi polmoni, battito del suo cuore. Una Chiesa che non prega, non ama né la gloria di Dio né la salvezza dei suoi figli. E se non ama, non vive: è morta. Per il fatto che nella Chiesa l'obbligatorietà della liturgia delle ore non nasce da un precetto costrittivo, ma dalla esigenza stessa del suo esistere, l’impegno di chi vi è tenuto, non è eliminato, né diminuito, ma intensificato.
Appare evidente che il primo soggetto della liturgia delle ore, non è il sacerdote, ma tutto il popolo dei battezzati. Tuttavia tale preghiera più specialmente costituisce il compito di coloro che direttamente e personalmente sono consacrati al bene di tutta la Chiesa, o per la loro ordinazione o per la loro missione o per la loro professione, ecc. (clr. LG., 20-32).
Tra queste persone, il nostro arcivescovo card. Carlo Maria Martini nel decreto di promulgazione della Diurna Laus (Milano, 8 settembre 1981), metteva in risalto i ministri ordinati e osservava che "molto opportunamente, soprattutto nelle comunità parrocchiali, sarà il sacerdote a presiedere la celebrazione: in tal modo, mentre egli assolverà il suo personale ufficio di orazione, darà risalto al significato singolare di questa preghiera innalzata dalla porzione di popolo di Dio del quale è guida".

 

L’orarietà


L’orarietà vuole che chiunque sia tenuto alla celebrazione dell’ufficio divino, mantenga l’orario della sua diocesi.
Quando per veri motivi l'orarietà della propria Chiesa non può essere osservata, non è lecito tralasciare l’ora corrispondente nella liturgia giornaliera, ma in tale caso deve prevalere la norma che la santa ufficiatura è affidata, primariamente e responsabilmente, alla Chiesa universale, la quale se l’assicura ogni giorno per mezzo di persone consacrate sulle cui labbra è posta la preghiera della gloria di Dio e della salvezza per tutto il genere umano.

 

 

Il sacerdote uomo della preghiera nella Chiesa
 

Il valore pastorale della presenza del sacerdote in mezzo al popolo, nasce dalla fisionomia impressa in lui dal sacramento dell’Ordine. La gente chiede di riconoscere questa fisionomia, perché quando essa impallidisce o scompare, allora si dissolve il legame che allaccia il popolo al sacerdote e il sacerdote al popolo. E questo legame è la preghiera.
Che Cosa chiedevano i cristiani e gli stessi dubbiosi nella fede all’arcivescovo card. Ildefonso Schuster, se non di essere raccomandati nelle sue sante preghiere? E che cosa chiedeva egli stesso 
sul letto della sua agonia a chi lo poteva avvicinare, se non d’aiutarlo a morir bene? E di che cosa un vescovo o un presbitero ha maggiormente bisogno per sé e per le sue responsabilità verso gli altri, se non di efficaci implorazioni di perdono e di misericordia?
Uno dei doveri principali di un sacerdote è quello di essere un maestro di preghiera. Gli si può rivolgere una domanda più bella di quella che i discepoli rivolsero un giorno a Gesù << Maestro, insegna anche a noi a pregare come ha fatto Giovanni Battista coi suoi seguaci >> (LC. 11, 1)? La sete pastorale di un sacerdote gli deve infiammare tutta l’anima quando una simile richiesta gli viene fatta dai piccoli, dai malati, dagli anziani, dai poveri. A questa semplice e umile gente, il sacerdote deve illustrare spesso, con mitezza ignara d’ogni risentimento verso gli svagati, lo spirito e le formule essenziali della preghiera.
Quanto allo spirito, faccia imparare che la vera preghiera è quella in cui chi prega, sa con chi parla e sa che chi l’ascolta, conosce la miseria di colui che gli parla.
Quanto alle farmule, insista su quelle che nessuno dimenticherà per tutta la vita: il Padre nastro, l’Ave Maria, il Credo, le Opere dl Misericordia, le Giaculatarie più belle.
Non si scoraggi, anche se talvolta si troverà solo a celebrare la liturgia delle ore, senza l’attuale presenza e la comunione visibile dei fedeli.

Abbia la certezza che alla sua celebrazione non mancherà il valore sostanziale di efficace orazione della Chiesa e per la Chiesa. E, tramite il suo carattere sacerdotale che lo fa un altro Cristo, vibrerà nelle sue parole l’intercessione di Gesù sulla Croce, intercessione continuata da Lui nell’Eucaristia.
Una comunità che non si raccoglie a santificare il tempo che evapora, così da redimerlo dalla vanità e insensatezza, è simile a un gregge senza pastore, abbandonato a sé, sempre più disaffezionato da Gesù Cristo. E quando l’Eucaristia viene spogliata, sempre o quasi, dal contesto della celebrazione delle ore, risulta fatalmente come improvvisata, infrigidita e decurtata.

 

 

Un inno di sant'Ambrogio e un’allegoria di Rostand
 

A conclusione delle riflessioni sulla liturgia delle ore mi gioverebbe il bellissimo inno di sant’Ambrogio sul Canto del gallo. Quando il grande vescovo di Milano udiva lo squillo mattutino dell’araldo del giorno, immaginava che gli operatori del Male abbandonate le malvagie imprese, scomparissero insieme con le ultime tenebre, mentre gli spiriti del Bene ritornassero alla rivincita con le prime luci, infondendo nei cuori il pentimento che cancella le colpe e le lacrime della rinascita alla vita di grazia.

L’inno di colui che ha dato il nome al nostro rito, sembra che m’induca a riprendere una fresca e gustosa allegoria suggerita da un teatro di Edmond Rostand, intitolato Chantecler che, con qualche ritocco e spogliata dell’umorismo può imprimere nella memoria e nel cuore l’argomento della nostra meditazione.
Dice quel drammaturgo che una volta il gallo aveva rivelato ad alcune galline il suo segreto.
Se a ogni alba l'illuminatore del giorno sorgeva, era perché lo risvegliava lui col suo Canto. Appena lanciato il primo grido, il sole apriva gli occhi e le sue lunghe ciglia luminose rigavano il cielo orientale ancora scuro. Dopo altri incitamenti canori, appariva lentamente la sua faccia, circondata da una fulgente chioma di raggi. E se fosse capitato che per malattia o per dimenticanza non l’avesse ridestato, allora sul mondo non ci sarebbe stata che una luce smorta e filtrata dalle nuvole.
La strabiliante rivelazione fece il giro dei cortili e il giorno appresso, quando prima di ogni albore, il gallo uscì per cantare, una folla scettica di galline, di anatre e tacchini gli andò dietro, quatta e silenziosa. Il gallo si fermò all’imboccatura della valle. Ruspò il suolo con l’una e l’altra zampa e le infisse entrambe nello scavo, per prendere contatto con le profondità della terra. Sentì tutte le forze occulte e inespresse dell’universo gonfiargli il corpo, allungargli il collo turgido, 
aprirgli il becco. Emise il primo squillo: lungo, energico, trillato.
ll momento era solenne. Dietro al re del pollaio, tutto il basso uccellame del cortile non fiatava. Un secondo squillo. Ed ecco le cortine buie della notte, tremare a levante, mosse da un soffio misterioso. Da molte scissure uscivano respiri di luce, e quella luce si faceva più intensa come per un fluire luminoso di acque dentro acqua. Esplose una vampa ardente; e fu il sole, il grande sole.

 

Il pastore d’anime in una parrocchia o in una diocesi, potrebbe trovare un suo simbolo nel gallo. Egli è l'immagine viva del Re, del Capo, dello Sposa della Chiesa.
Di tutta la Chiesa:
- la Chiesa trionfante: dove le anime, sempre saziate e sernpre assetate della gioia di Dio, non dimenticano nella loro felicità di pregare per la nostra salvezza;
- la Chiesa purgante: dove l’amore é un fuoconche, nell’attesa volontaria, libera le anime da ogni macchia e in quell’amata purificante sofferenza, noi possiamo alleviare la loro pena coi nostri suffragi e con le opere buone, mentre esse, a loro volta, possono con le preghiere e le intercessioni aiutarci a superare il peccato e a fare il bene;

- la Chiesa pellegrina << in questa valle di lacrime >>: dove il pastore d’anime normalmente è chiamato a presiedere alla liturgia delle ore e dell’Eucaristia.
 

Come uomo, egli è il re del mondo in cui tutte le cose create da Dio sono belle e buone in sé, ma senza coscienza e voce. E’ nella sua coscienza che devono prendere coscienza, è nella sua voce che devono farsi voce consapevole.
Come pastore d’anime, egli deve condividere il dolore delle cose e degli uornini; deve organizzare ogni giorno la difesa della libertà contro ogni ritorno alla schiavitù, l'incolumità della nostra verita contro ogni ingannevole falsità, la protezione della nostra pace contro ogni ribelle stimolo di violenza. Cristo è la nostra libertà, la nostra verità, la nostra pace. E ha dato all’uomo pellegrino, e spesso piangente, la speranza viva di migliorare il mondo mediante la grazia della sua Passione, per renderlo più simile a Lui, per il quale e in vista del quale tutte le cose visibili e invisibili furono create e redente, perché cantino la gloria di Dio, ora e per sempre.

***

IL SEMINARIO: RICORDI E CONSEGNE
Omelia tenuta nel seminario di Venegono Inferiore - il 28 
febbraio 1983.

 

 

Grazie a mons. Citterio, eccellentissimo rettor maggiore, grazie ai maestri di scuola e di vita, grazie alle guide educatrici, e grazie anche a voi, diletti alunni, che mi accogliete per ringraziare insieme Dio misericordioso che mi ha concesso di celebrate l’80° compleanno.
Torno qui per dire parole che mi salgono dal cuore. Io devo quello che sono, quello che ho fatto, quello che mi sono proposto di non fare, al seminario in cui ho trascorso una vita intera e dove ogni mia intenzione e ogni mio gesto hanno sempre trovato la loro determinante ispirazione.

 

 

La preparazione
 

In serninario feci il mio ingresso a 12 anni, il 15 ottobre 1914, giorno di santa Teresa d’Avila, mentre sull’Europa già rintronavano i cannoni della prima guerra mondiale. Il mio curricolo è presto detto. Se non cade foglia che Dio non voglia, riconoscerò che una volontà provvidenziale dispose che salissi tutti i gradi della via ecclesiastica: fui alunno, divenni insegnante di Lettere, feci il rettore di Liceo e poi della Teologia; il cardinal Montini, pur lasciandomi in seminario, mi scelse come vescovo ausiliare, e appena fu proclamato papa mi elesse suo successore.
Il 20 ottobre 1963, ricorrendo l’anniversario della consacrazione del Duomo compiuta da san Carlo, nel luminoso gesto di quel mio grande predecessore, feci l’ingresso nella metropoli lombarda, lasciando il seminario, che però restò sempre la patria dei miei pensieri. E mi trovai, piccolo uomo, sulla cattedra dei santi.
Su quell’altezza da vertigine, la Provvidenza mi sostenne fino al termine del 16° anno di servizio pastorale, quando - come è scritto nel salmo 80 - Dio facendo un cenno a mio riguardo, disse: << Ho liberato dal peso la sua spalla, le sue mani hanno deposto la cesta >>.
E ora eccomi di nuovo, anche col corpo, in quel medesimo seminario da cui la mattina del 29 maggio 1926 uscii per essere ordinato presbitero dal cardinal Tosi. Camminavo per Corso Vittorio Emanuele e non sentivo i miei piedi toccare il marciapiede. Ora nel sogno rivedo le immagini paterne dei miei maestri e formatori; di giorno lungamente ripenso ai loro insegnamenti, pregando e lavorando. Non mi sento mai solo. Il mio riposo attivo è riscaldato dall’affetto più che fraterno del mio venerato e amato successore.

 

 

Un momento drammatico
 

Se ripenso al mio non breve episcopato, un momento drammatico mi fa ancora dolere la memoria che lo ricorda.
Durante il tempo della contestazione, trascorrevo alcuni giorni con i seminaristi di Liceo. Non tardai ad accorgermi che lo spirito contestatario era penetrato anche nel seminario. Lo avevo lasciato tre anni prima e non lo riconoscevo più.
Riflettendo sulle mie impressioni, mi pareva d’aver attraversato un tunnel che mi immetteva in un paese straniero di cui ignoravo la lingua. Mi ero persuaso che molto di quello che avevo veduto e udito non collimasse con i perenni valori della tradizione seminaristica. Ma ai piedi di questa certezza sorse un dubbio: era tutto da respingere ciò che non avevo capito? E avvertii che parecchie aperture erano suggerite da esigenze storiche nuove e valide, ben degne di ampliare e rinnovare il tesoro della formazione ecclesiale. Ci vollero lunghe riflessioni e consultazioni di uomini e di libri per giungere a sceverare i valori dai disvalori.
Qualche settimana dopo, alla sera di un giorno di ritiro predicato ai sacerdoti di un decanato, passando in un corridoio oscuro, confuso tra i preti, ne udii uno molto giovane che diceva: << Non manderò mai un giovane in seminario a soffrire come ho solferto io >>. Pensai: << Ha la febbre della contestazione e non sa quello che dice >>. Ma i contagi passano. So di fatto, che oggi quel sacerdote ragiona diversamente e convinto.
Quella volta dissi tra me e me: << No! io, invece, tornerei in ginocchio nel mio vecchio seminario, pur di ricevere quei beni perenni che costituiscono il fermo ancoraggio morale e religioso contro le burrasche della vita >>. Eppure sapevo le sofferenze psichiche e fisiche che, a quei tempi antichi, erano più pungenti di oggi: la lontananza drastica dalla famiglia, che mi faceva piangere la sera sotto le coperte; l’istruzione e l’educazione di massa a me che da tre anni ero stato abituato a quella personale sotto la guida di una suora affettuosa e lungimirante; i geloni alle mani e ai piedi d’inverno, perché riscaldata non avevamo che l’aula di studio; la sete d’estate, perché una regola assurda proibiva di bere dopo il pasto della sera, anche dopo una ricreazione accaldante o un lungo passeggio polveroso; la fame per insufficienza di vitto, che ci mordeva lo stomaco tutto l’anno, in quegli orribili tempi di dopo guerra in cui tutto mancava e tutto era dosato per tessera anche a convivenze di giovanotti.

 

 

La divina pedagogia
 

Con divina pedagogia, l’amore di Dio non mancò di assistermi, di rendermi bella e gioiosa la vita seminaristica, parlandomi di tappa in tappa familiarmente. Nel Ginnasio con l’Autobiografia di sr. TERESA DI GESU BAMBINO non ancora beata; nel Liceo con i Colloqui di Giosuè BORSI, nipote di Carducci, vittima della guerra, e con il Viaggio del centurione, autobiografia di ERNESTO PSICARI, nipote di Renan, anch'egli caduto in guerra; nella Teologia con insigni Maestri come mons. Giacinto Tredici, poi vescovo di Brescia, come mons. Adriano Bernareggi, poi vescovo di Bergamo e assistente delle Settimane dei laureati e degli intellettuali cattolici d’Italia, come moms. Carlo Figini, professore di Dogmatica e basta, ma che raggiungeva a uno a uno gli alunni della sua scuola, quale un vescovo i sacerdoti della sua diocesi.
Mons. Figini insegnava Dogmatica con metodo storico e non temeva d’introdurre i suoi alunni, che erano quelli della Facolta Teologica d’allora, alla conoscenza anche del pensiero di autori modernisti, protestanti, razionalisti e perfino atei.
Certo la preparazione alle sue lezioni, che scriveva integralmente, gli doveva costare molto, ma egli amava i suoi discepoli e l’amore superava ogni fatica. Anche la preparazione prossima esigeva l'impegno di un’ora e mezza per dare un’anima ai pensieri gia scritti. Quando, per gracilità di salute, mancavo alla sua lezione, quel giorno a me pareva senza sole.

 

 

Alcune consegne
 

Ogni congedo implica qualche consegna. Anche quello di questo ottantenne. Ecco quelle che più mi premono per il vostro oggi e, più ancora, per il vostro domani.
 

1. - Amate il seminario minore.


Ricordate la frase da me ripetuta molte volte: << Se non lo avesse creato san Carlo, lo avrei fondato io stesso, per dare alle parrocchie della diocesi i laici migliori; e magari anche qualche ottimo prete, in cui l’esercizio delle virtù cristiane, cominciato presto, sarebbe diventato quasi un impulso naturale >>.
Il seminario minore sia aperto a quelli che hanno una chiara orientazione al sacerdozio, che ovviamente deve essere esaminata nella sua verità alla luce dello Spirito Santo. Il seminario minore è molto di più, ma fosse anche solo un riparo da qualche procella, non é cosa da poco. La nube della grandine passa, ma la ferita di un violento chicco sulla tenera scorza non passa, ma si dilata e deforma fin che l’albero muoia. Ci sono certe ferite che chiudono l’accesso al sacerdozio.
Poiché tra qualche giorno è il primo centenario della nascita di Umberto Saba (9.III.1883), una delle voci liriche più alte della poesia italiana del Novecento, mi sia concesso richiamare un sonetto dove il poeta rispecchia la sua infanzia:

 

<< All’Angelo custode era lasciata
sgombra la notte, metà del guanciale;
mai più la cara sua forma ho sognato
dopo la prima dolcezza carnale >>.


L’angelo custode non venne più nei sogni, né il poeta udì più la sua voce nella coscienza. Ritornò al termine della vita. Lo pregò allora di una sola cosa, cioe <<che fra crolli tanti, sopra tanta rovina >> egli potesse ritrovare almeno un lembo dell’innocenza perduta (U. SABA, Il Canzoniere, Milano 19744, pp. 246 e 396).
 

2. - Leggete come un segno dei tempi l'attuale carestia di vocazioni.


Le vocazioni scarseggiano anche nella nostra Chiesa ambrosiana. Oh! tempi del mio rettorato di Liceo - era il 1948 -, quando avevo 348 alunni nei corsi liceali compresa la V Ginnasio! Oggi le classi molto esigue possono presentare il vantaggio provvidenziale di una formazione e di una istruzione personale; usciranno così dal serninario sacerdoti esemplari e affascinatori, capaci di ripopolarlo di vocazioni promettenti e generose secondo il disegno di Dio, per la riconquista del suo popolo.

 


3. - Incoraggiante la scuola delle vocclzioni adulte.


Le mutate condizioni sociali hanno fatto scomparire da essa i meccanici, i falegnami, i contadini degli inizi. Ma sono ancora vocazioni quelle che la frequentano; e una sincera vocazione è sempre un miracolo. E i miracoli non hanno prezzo.

 


4. - L'ultima consegna vorrebbe essere riservata ai superiori del seminario: ciascuno per la parte che lo riguarda.
 

Non basta amare i propri discepoli, bisogna che ognuno di essi lo senta e lo sappia. L’alunno si senta e si sappia amato come fosse l’unico, cioe con tutto il cuore, con tutta la preghiera, ma senza particolarismi.
Come farà il superiore a dare all’alunno coscienza e consapevolezza d’essere amato? Risponde Don Bosco, quel mago dell’educazione giovanile:
<< Il superiore deve amare ciò che piace ai giovani, e i giovani ameranno cio che piace al superiore >>, anche se si tratta di resistere in un impegno con fermezza o di accogliere la proposta di un sacrificio o di sottomettersi lietamente a un’obbedienza penosa. Chi sa d’essere amato, ama senza costrizione, e apre il cuore al suo maestro perché vi deponga parole che sono semi di eternità. Questa, per esempio, che è di sant’Ambrogio: << La opera di misericordia si pianta in terra e fiorisce in Dio >>. (De Nabuthe, 12, 53). O quest’altra, che è di san Paolo: << Il nostro vanto è Ia testimonianza della nostra coscienza >> (2 Cor. 1, 12).

Ancora 3
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